Espressioni orali e linguistiche

La lingua di rame

Il lessico dei ramai di Tossicia

Il mestiere di ramaio, fiorente nell’area di Tossicia fino al secondo dopoguerra, produceva un paesaggio sonoro legato non solo al duro lavoro di trasformazione del metallo, ma anche, nella bottega e nelle fiere, alla particolare lingua utilizzata per nominare i manufatti, gli attrezzi e le azioni da compiere per riuscire nell’opera. Questa “lingua di rame” è intessuta di termini tecnici, nomi dialettali e forme gergali: la grande quantità e varietà di strumenti di lavoro, generalmente ideati dagli stessi ramai, la duttilità del metallo lavorato e quindi la varietà dei manufatti realizzati, l’ampiezza della tradizione, il contatto connivente tra ramai di territori diversi e una trasmissione familiare dei segreti del mestiere hanno contribuito a conferirle una precisa identità.

“Questo si chiama lu palacciulë… tutti questi attrezzi qua li facevamo noi, perché non erano in vendita. Prendevamo i pezzi di ferro… lo vede bene questo cos’è? Questo è un pezzo di una stadera, la famosa stadera vecchia, una pesa… tutto noi facevamo, ci sono anche pezzi di semiassi delle macchine, e ci facevamo lu palafirrë”.
Goffredo Di Giovanni, 27 luglio 2018

Quella dei ramai di Tossicia è una lingua di settore che presenta una significativa rilevanza culturale, sia perché consente di documentare un mestiere ormai tramontato nella Valle Siciliana, sia perché fornisce diverse informazioni di ordine antropolinguistico e storico. Una recente inchiesta condotta presso la bottega, semidiruta a causa del terremoto del 2009, di Goffredo Di Giovanni, ultimo ramaio ancora in attività, ha portato alla raccolta di diverse decine di termini talvolta di notevole interesse.

Se alcune voci come concacallara e cùcuma sono ampiamente diffuse in particolare nei dialetti centro-meridionali al punto da essere integrate nella lingua italiana (standard o regionale), la ruscia (polvere di carbon coke utilizzata per lucidare il rame) e il collegato verbo rusciare sono formazioni iconiche intimamente legate alla specifica attività manipolativo-trasformatrice esercitata sul metallo. Alcune voci sono poi presenti nella lingua italiana comune, ma usate però in questo contesto secondo un’accezione più tecnica e/o antica: è il caso di fèccia, la vinaccia che veniva utilizzata per lucidare il rame, o di spirale, termine che designa la decorazione a spirale presente sul fondo dei recipienti di rame, sia per esigenze estetiche, sia per conferire al manufatto maggiore resistenza.

Non mancano i termini metaforici che riflettono una fondamentale interazione tra il corpo del ramaio e lo strumento di lavoro, come il cavallo (treppiede di legno sul quale il ramaio si sedeva per battere la falda della conca), o i dialettali lu manaronë (un grande mestolo per versare il mosto nelle damigiane) e la manirë (un mestolo più piccolo per prendere l’acqua dalla conca e bere tutti), entrambi interpretabili come rappresentazioni della mano che raccoglie il liquido contenuto nei vari recipienti.

Una fioritura lessicale riguarda poi i termini che designano gli innumerevoli tipi di martello, lo strumento di gran lunga più differenziato in ragione degli svariati utilizzi cui si prestava: non a caso il nome del martello ne indica la specifica funzione. Abbiamo così lu martillë d’accannà (l’accannatura è il fregio che orna la conca), lu martillë d’arbattë (il martello per ribattere il rame), lu martillë da chiuwà (per martellare i chiodi di rame realizzati dagli stessi ramai), lu martillë da funnà (per martellare il fondo del recipiente), lu martillë da liscià (per allisciare la superficie del recipiente in rame) ecc. Diverse barre di ferro (palafirrë) ricevono altrettanti nomi: lu palafirrë d’arbattëlu palafirre pë fa li manirë, e così via.

Meno trasparenti sono alcuni termini relativi a elementi più piccoli, come la vijre (il manico della callara), la hiuwira (la “chiodera”, barra metallica forata per fabbricare artigianalmente i chiodi di rame) e soprattutto la sòsta (anello metallico posto sotto la hiuwira), che interpretiamo come l’evoluzione fonetica di un termine gergale utilizzato dai ramai di Monsampolo (Ascoli Piceno), la sòffëca, definito da Ernesto Giammarco, in un suo studio del 1969, come un “dado bucato usato per perforare la lamiera”.

Un mestiere anche itinerante

Il ramaio Goffredo Di Giovanni racconta delle sue itineranze nel teramano, a casa dei contadini o alle fiere.
Tossicia (TE), 2018.
Registrazione di Giovanni Agresti,
Archivio Centro Studi Sociolingua.

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La lingua di rame
La manirë
Il ramaio Goffredo Di Giovanni mostra una tipica manirë per prendere l’acqua dalla conca.

Foto di Giovanni Agresti,
Tossicia (TE), 2018,
Archivio Centro Studi Sociolingua.
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La lingua di rame
La hiuwira
Il ramaio Goffredo Di Giovanni fabbrica un chiodo di rame battendo con il martello sulla hiuwira (la “chiodera”, barra metallica forata) poggiata sulla sòsta.

Foto di Giovanni Agresti,
Tossicia (TE), 2018,
Archivio Centro Studi Sociolingua.
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La lingua di rame
Due martelli
Il ramaio Goffredo Di Giovanni mostra lu martillë d’accannà (l’accannatura è il fregio che orna la conca, a sinistra) e lu martillë d’arbattë (il martello per ribattere il rame, a destra).

Foto di Giovanni Agresti,
Tossicia (TE), 2018,
Archivio Centro Studi Sociolingua.
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La lingua di rame
Lu palacciulë
Lu palacciulë è ricavato riutilizzando la barra di ferro di una vecchia bilancia, di cui si notano ancora i piccoli solchi.

Foto di Giovanni Agresti,
Tossicia (TE), 2018,
Archivio Centro Studi Sociolingua.
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La lingua di rame
I gerghi di mestiere in Abruzzo
Una cartina localizza i gerghi di mestiere diffusi in Abruzzo e nelle Marche meridionali. Tossicia non figura tra i punti d’inchiesta.

Estratto da Ernesto Giammarco (1969), “Il gergo dei ramai di Monsampolo (in provincia di Ascoli Piceno)”, Abruzzo. Rivista dell’Istituto di studi abruzzesi, VII, 1, gennaio-aprile.

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La conca e la callara

Il ramaio Goffredo Di Giovanni mostra i due manufatti tradizionali abruzzesi in rame per eccellenza e fornisce alcune voci lessicali, sia in italiano, sia in dialetto.
Tossicia (TE), 2018. Riprese di Giovanni Agresti, Archivio Centro Studi Sociolingua

Trasmissione e salvaguardia

Nell’antica capitale della Valle Siciliana esistevano nel secondo dopoguerra più di quaranta botteghe di lavorazione del rame, distribuite in particolare nella frazione di Chiarino e nell’immediato circondario. Le botteghe erano generalmente a conduzione familiare e il mestiere si trasmetteva da una generazione all’altra. Tra le famiglie più attive, si ricordano i Franca, i Vignoli, gli Urbani, i Baracchini e i Di Giovanni, cui appartiene l’ultimo ramaio ancora in attività, Goffredo (nato nel 1939), il nostro informatore. Il mestiere ha conosciuto quindi un rapido declino, per diverse ragioni di ordine socioeconomico, trascinando con sé l’evaporazione della lingua di settore che sopravvive più che altro come nomenclatura.

Il contatto documentato con le Marche, in particolare con i ramai di Force (Ascoli Piceno), lascia supporre che un tempo anche tra i ramai di Tossicia come tra i forcesi fosse in uso un gergo di mestiere, come suggeriscono alcuni indizi: la sòsta deriverebbe dalla sòffëca (dado metallico bucato), termine come detto usato dai ramai di Monsampolo (Ascoli Piceno); l’aggettivo bèffo (“stupido”), ragionevolmente collegabile a bbèffi (“sedere” nel gergo dei ramai di Force), risulta familiare al nostro informatore abruzzese, come anche la voce gergale forcese ciafrëgnött’ (“uomo piccolo”) e rëvètta (il “chiodo da ribattere”), termine in uso a Monsampolo. La relativa vitalità del gergo del mestiere di ramaio proprio nei centri piceni sembra riflettere la capacità dei ramai marchigiani di reggere l’urto dell’industrializzazione stringendo i vincoli dei gruppi artigianali. Questa era l’opinione di Ernesto Giammarco, il quale, nei diversi lavori dedicati ai gerghi di mestiere dell’area abruzzese-marchigiana, si è occupato dei ramai di Monsampolo, il cui gergo aveva scoperto nell’estate del 1968, e per l’appunto di Force, mentre non fa menzione dei ramai di Tossicia pur richiamando il gergo dei ramai di Guardiagrele, già segnalato da Ugo Pellis.

La ricostituzione della lingua dei ramai della Valle Siciliana sembra dunque particolarmente complessa: l’augurio è che il Museo di Tossicia, attualmente chiuso, possa presto riaprire i battenti, rilanciando un ampio interesse sul tema, e che nuove campagne di ricerca, condotte tra Marche e Abruzzo, possano consentire l’arricchimento e una soddisfacente documentazione della “lingua del rame”.

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