Un sogno lungo un giorno

Villaggio in Abruzzo ulteriore in diocesi di Penne, e propriamente nel ripartimento di Teramo, dalla quale città ne dista miglia 12. È nel circondario del Gran Sasso d’Italia, detto Monte Corno, e trovasi abitato da 750 individui, addetti quasi tutti alla pastorizia”. Con queste parole Lorenzo Giustiniani descrive Fano Adriano nel Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli del 1802. Ancora nel corso del Novecento pecore, capre, bovini, cavalli, somari, popolavano la montagna di Fano, soprattutto nei mesi estivi, quando il bestiame transumante risaliva in montagna compiendo la cosiddetta “monticazione”, di provenienza dall’Agro Romano o, in misura minore, dall’Agro Pugliese, come ricorda anche il regolamento per l’esercizio degli usi civici dell’epoca (1962). Il pascolo era diviso in due zone, la superiore, destinata al bestiame transumante, chiamata delle “erbe estive”, la seconda, più in basso, delle “erbe invernali”, per il bestiame che svernava nel territorio comunale. Gli stessi usi civici regolamentavano i tempi dell’accesso, e dunque anche i ciclici ritorni dei pastori e degli animali: la durata del pascolo era limitata a un periodo compreso tra il 21 giugno e il 29 settembre, e si svolgeva nelle località in alta quota, come Monte, Incodaro, Venacquaro, casetta Leone, Vicenna, Fonte Calzoni e molte altre, fino a occupare anche le montagne vicine, secondo gli usi civici dei comuni che governavano gli accessi ai territori contigui o, in taluni casi, anche distanti.

Le aziende fanesi possedevano in effetti, complessivamente, decine di migliaia di capi di bestiame, in prevalenza ovino, e portavano le pecore al pascolo anche ai Prati di Tivo, sul monte Corvo, a Pizzo Intermesoli, a Campo Imperatore. Al contrario, il sistema di migrazione che coinvolgeva lo Stato Pontificio e il Patrimonio di San Pietro forniva stagionalmente alle greggi abruzzesi i pascoli invernali attorno a Roma, fino alla Toscana e all’Umbria; la sua fondazione moderna viene fatta risalire a un’epoca non di molto precedente al 1289, ed era pertanto una pratica di lungo periodo.

“Le montagne sono sempre state cariche di bestiame, era l’unica risorsa; da qui a Leonessa erano tutte pecore”, ricorda Adamo Cortellini, originario della vicina Senarica. Era l’unica risorsa per la popolazione ma anche per i datori di lavoro, e dai paesi dell’Alto Vomano erano in tanti a trovare occupazione con i fanesi, con le famiglie di proprietari di greggi come i Nisii, i Riccioni, i Risoluti, i Lancianese. Anche dalla frazione di Cerqueto si andava a fare i garzoni con i fanesi; era un commercio fiorente e c’era bisogno di manodopera, c’erano i grandi proprietari e i muscetti, che avevano poche decine di capi: migliaia e migliaia di pecore da governare con l’organizzazione gerarchica delle aziende e la divisione di responsabilità e mansioni. Allevamento ovino, produzione dei formaggi di latte di pecora, vendita degli abbacchi, dalla tosatura alla mungitura, dalla marchiatura ai periodici controlli sullo stato di salute del bestiame, tutto doveva essere regolato dal capo dell’azienda, il vergaro, con il suo articolato personale: i pecorari, dislocati sul pascolo e incaricati di custodire gli armenti, il caciere o caciaro, specializzato nella produzione del formaggio, il buttero, incaricato di portare a Roma gli abbacchi, la ricotta, il formaggio e gli altri prodotti da smerciare, i bagaglioni, addetti al trasporto della legna con le bestie da soma e a procurare tutto ciò che potesse essere utile al funzionamento dell’azienda, infine i biscini, ragazzi apprendisti pecorai impegnati in mansioni minori, come portare l’acqua e spostare le reti delle pecore.

Il 29 giugno era la festa dei SS. Pietro e Paolo, a cui è dedicata la chiesa madre del paese. A Fano Adriano era anche il giorno della fiera del bestiame, e iniziava l’estate in montagna. Alla metà di settembre si cominciava a pensare alla nuova partenza, al lungo percorso assieme agli animali e alle varie tappe per le soste quotidiane. Dopo circa otto giorni di cammino la “demonticazione” era compiuta, con il ritorno nella campagna romana o, con un tragitto transumante ancora più impegnativo, nelle terre pugliesi. Nell’Agro Romano i pastori, quando non disponevano di casali dove ricoverarsi, costruivano capanne di paglia, canne e pali di legno, in cui trascorrevano tutto il periodo di permanenza fuori dal paese di origine. Bruno Riccioni ricorda la grande capanna armentaria, dove dormivano i pecorai senza famiglia e si facevano il formaggio e la ricotta o si cucinava sul focolare, posto al centro della struttura, fra pochi mattoni di tufo. Poca pasta, poco pane e poco condimento dovevano bastare.