L’onda del mantice

A Penna Sant’Andrea si suona sempre, e suonano quasi tutti. Nelle feste pubbliche o negli itinerari domestici, per i matrimoni e i canti di questua, per i colorati intrecci del “laccio d’amore” o le serenate estive, le serate conviviali e i pomeriggi invernali, davanti al camino, l’organetto è pronto per essere imbracciato e messo in funzione, dai bambini e dai più giovani, dagli adulti o dagli anziani, in forma solista o accompagnato da altri strumenti. Virtuosi esecutori e interpreti, i suonatori del paese se ne trasmettono le tecniche e le particolari melodie, elaborate in una pratica condivisa e costantemente esercitata.

“Come ho imparato non lo so nemmeno io. Non sono andato da nessuno, ho sentito, per conto mio, mi veniva in mente qualche suonata, cominciai a conoscere lo strumento, la tastiera, che significava. E allora ha cominciato a entrare in testa, ho cominciato a suonare, piano piano…la suonata te la devi mettere nel cervello, poi la fai”.
Basilio D’Amico, 6 marzo 2004

L’organetto a due bassi, noto in area abruzzese con il nome di ddu bbottë, è uno strumento meccanico della famiglia organologica degli aerofoni, che produce il suono tramite la compressione dell’aria generata da un mantice, detto anche soffietto. L’alimentazione dell’aria è garantita dal movimento delle braccia, un’azione necessaria a imprimere anche l’andamento ritmico alle suonate eseguite, in modo più o meno complesso e raffinato. Si può dire quindi che il mantice dell’organetto, leggero e versatile, sia l’anima dinamica dello strumento, e la gestione del suo completo potenziale ciò che differenzia, in particolare, suonatori di vecchia e nuova generazione.

Strumento contadino dell’era industriale – come è stato definito dall’etnomusicologo Francesco Giannattasio –, l’organetto ha preso rapidamente il posto di strumenti più antichi ma di più complicata gestione, come il violino, il calascione, la zampogna, animando le feste sull’aia ma entrando anche a far parte di un circuito competitivo di gare e scuole, in una continua evoluzione di tecniche esecutive e di stili.

Fra i principali interpreti di questo progressivo perfezionamento dello strumento – e del suo contemporaneo allontanamento dalle modalità espressive proprie della cultura contadina – è da ricordare il virtuoso suonatore teramano Fanciullo Rapacchietta (1915-2014), che a Penna Sant’Andrea ha insegnato a generazioni di giovani allievi negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quando si ravvisava un abbandono della pratica generalizzata dell’organetto. Fanciullo Rapacchietta ha inoltre accompagnato il gruppo del “Laccio d’amore” per molti anni, imprimendo il suo particolare stile anche alle suonate della storica formazione di danza.

In una dimensione piuttosto diversa si colloca invece Basilio D’Amico (1919-2012), un apprezzato suonatore autodidatta, figlio di contadini della frazione Pilone di Penna Sant’Andrea, che ha coltivato la sua passione per lo strumento fin dall’infanzia, suonando per più di mezzo secolo dovunque fosse possibile: per le serenate e i matrimoni, nelle feste paesane, alle serate di ballo nelle aie delle case di campagna e, come Rapacchietta, per le esibizioni del gruppo folkloristico del “Laccio d’amore”. Basilio D’Amico era dotato di un repertorio vastissimo, attinto dalle più svariate fonti: l’ascolto diretto dei suonatori incontrati nelle feste, la tradizione orale del canto, le musiche per fisarmonica, le canzoni della musica leggera, l’opera e la musica classica, adattate alle limitate possibilità offerte dall’organetto con sorprendente maestria.

Se Rapacchietta correva sulla tastiera in modo lineare, Basilio D’Amico conosceva invece le tensioni e i rilassamenti, e un’espressività intensa e calibrata fondata sull’uso sapiente della tecnica incrociata: una modalità esecutiva tutta poggiata sulle continue inversioni di mantice e sull’uso di impercettibili sottoritmi, che conferivano alle sue suonate una raffinatezza dinamica particolarmente apprezzata in contesti in cui la pratica dello strumento era indissociabile da quella del ballo.

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Polka delle poiane

Basilio D’Amico esegue una delle sue suonate, la “Polka delle poiane”, davanti al camino della sua abitazione (estratto dal documentario “Basilio D’Amico” di Marco Chiarini e Gianfranco Spitilli).

Pilone di Penna Sant’Andrea (TE), 15 ottobre 2005.

Riprese di Marco Chiarini,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.

Trasmissione e salvaguardia

Nel paese di Penna Sant’Andrea la capillare diffusione odierna dello strumento è testimonianza della duplice ricchezza di stili, di scuole e di pratica di cui la comunità è erede. L’elemento più propriamente legato all’espressività contadina è stato tuttavia marginalizzato rispetto alle forme competitive, affermatesi a partire dagli anni Settanta del Novecento, e solo recentemente una rinnovata attenzione ha portato a tentativi di un suo parziale recupero.

Il fenomeno di trasformazione, in atto da almeno un quarantennio, ha riguardato dunque in particolare i suonatori formatisi in questo arco di tempo, alle scuole di maestri come Fanciullo Rapacchietta e dei suoi immediati successori e allievi, e ha determinato da un lato una grande affermazione dello strumento e un perfezionamento virtuosistico delle tecniche esecutive, dall’altro un irrigidimento dei repertori e degli stili, standardizzatisi in pochi brani di grande circolazione, ricalcati sui modelli performativi forniti dai maestri.

L’influenza di Rapacchietta nei decenni è stata senz’altro maggiore; ha insegnato l’organetto a due bassi a decine di giovani pennesi, alcuni dei quali sono diventati a loro volta eccellenti e rinomati suonatori elaborando stili personali e nuove suonate, veri e propri maestri dello strumento e punti di riferimento per le generazioni successive attraverso corsi e lezioni.

Basilio D’Amico, dalla personalità più riservata e meno propenso a insegnare, se non in forma imitativa e a poche persone motivate a frequentarlo presso la sua abitazione, è stato al contrario oggetto di un diffuso interesse da parte di ricercatori, antropologi ed etnomusicologi – come Giuseppe M. Gala, Carlo Di Silvestre, Gianfranco Spitilli, Marco Chiarini –, che nel corso dei decenni lo hanno più volte incontrato, registrando il suo vasto e originale repertorio. La sua attività musicale è stata studiata e documentata fin dalla metà degli anni Ottanta ed è oggi parte di raccolte discografiche, presente anche in numerosi video e in un documentario a lui dedicato. Negli ultimi anni di vita ha anche preso parte alla festa della musica tradizionale “Valfino al Canto” di Arsita, animando intere serate a ballo con la musica del suo organetto.

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La buonasera

Di casa in casa, fra contrade rurali e case sparse, le squadre di questuanti portano i loro canti devozionali all’imbrunire. Entrano nelle abitazioni, salutano chi li accoglie, narrano attraverso la musica le storie di Sant’Antonio abate, il potente protettore delle stalle e degli animali domestici, venerato dai contadini. Il fuoco del camino riscalda ogni incontro, vino e biscotti aiutano i girovaghi a proseguire i loro itinerari fino a notte fonda.

“È una tradizione antica che si è usata sempre in queste zone, si è tramandata da generazione in generazione, e a noi piace mantenere questa cosa; si parte e non si avvisano le case, andiamo là e ci trattengono con i bicchieri di vino, con gli uccelli di Sant’Antonio, in certe parti prendono pure il prosciutto, il pane fatto in casa e si gira per queste case, è tutta un’allegria”.
Gianfranco Ciotti, 16 gennaio 1996

Luso rituale della questua cantata in onore di Sant’Antonio abate richiama alcuni elementi della sua biografia, trasmessa da Sant’Atanasio. Nato nel 251 a Koma, in Egitto, e morto a Quolzoum nel 356, il 17 gennaio, all’età di centocinque anni, Antonio conduceva una vita eremitica in luoghi isolati, nutrendosi grazie a offerte alimentari; la sua lotta contro i rumorosi demoni avveniva con l’aiuto del canto e della preghiera. Era inoltre considerato un potente taumaturgo, in grado di guarire da gravi malattie e di liberare dalla possessione diabolica.

L’ordine degli Antoniani fu ufficialmente fondato in Occidente nel 1297, ma l’attività di religiosi ispirati al santo egiziano era radicata già da tempo: i suoi seguaci erano specializzati nella cura dell’ergotismo e nel soccorso ai poveri, accolti in fondazioni e ospedali. Vivevano di questua e allevamento di maiali pubblici – nutriti dall’intera comunità –, per il mantenimento delle strutture e delle terapie a base di grasso di suino. Ammalati e maiali erano annunciati da campanelli, al pari dei suonatori che girano per la questua con un campanello, fissato alla sommità di un bastone. La squadra questuante odierna ripropone inoltre l’immagine del gruppo di eremiti al seguito del santo, o quello degli Antoniani in questua per raccogliere i beni da destinare ai poveri e agli ammalati. Il canto e la musica sono gli strumenti che conferiscono potenza al rituale: secondo le credenze locali purificano i luoghi dalle influenze negative, così come per Sant’Antonio abate erano gli strumenti per sconfiggere il Demonio.

A Befaro di Castelli, ai piedi del Monte Camicia, la questua rituale è particolarmente sentita, nella frazione, nelle contrade rurali e nelle case sparse del circondario. Gli itinerari domestici sono compiuti alla vigilia e nel giorno della festa, il 17 gennaio, per celebrare oltre al santo i rapporti di parentela e di vicinato, le amicizie, i legami e le alleanze sociali che formano il tessuto della comunità.

Dalle ricerche dell’etnomusicologo Marco Magistrali emerge un’ampia e radicata attestazione della pratica in tutta l’area dall’Alta Val Fino. La squadra di Befaro, in occasione degli itinerari domiciliari, esegue La buonasera, una storia cantata composta da ventiquattro quartine che narra la vita di Sant’Antonio abate, dalla nascita all’eremitaggio, dalle lotte contro il Demonio alla morte. Il canto fu assemblato e in parte composto da un vecchio sagrestano del luogo, Pietro Orsetti, che lo ha anche cantato nelle case per molti anni. L’organico strumentale della squadra di Befaro è composto in genere dall’organetto, dalla chitarra, dai piatti, da ’rancascë (grancassa) e tamurrë (tamburo), e ha legato assieme per decenni, in particolare, le famiglie Ciotti e Francia, la prima specializzata nel canto solista e nel ddu bottë, la seconda nell’uso e nella costruzione delle grandi percussioni che accompagnano il canto rituale nelle case.

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La questua e l’uscita

La squadra di Befaro durante la questua cantata presso un’abitazione di contadini; in chiusura lascia la casa eseguendo le strofe di saluto.
Befaro (TE), 16 gennaio 1996.

Riprese di Marco Magistrali,
Archivio Marco Magistrali e Associazione Altofino.

Trasmissione e salvaguardia

Le squadre di suonatori sono costituite da uomini e ognuna fa riferimento a un anziano, considerato l’anello di congiunzione con il passato anche se non è più in grado di compiere i giri augurali; è il punto di riferimento permanente per le scelte del testo e delle melodie. Alcune squadre conoscono diversi canti per l’occasione, ma più il gruppo è unito e maggiormente si riconosce in uno di essi in particolare. La storia dei testi e delle melodie è fatta di continue rielaborazioni: nel corso del Novecento sono stati introdotti o rimodellati diversi canti di questua, e La buonasera è uno di questi, a testimonianza della grande duttilità e capacità di adattamento della trasmissione orale, anche attraverso forme di redazione scritta che tornano in seguito a essere veicolate tramite l’oralità.

La questua a Befaro è ancora praticata, soprattutto dalla famiglia Ciotti, anche se in passato sono esistite fino a quattro squadre attive negli itinerari per le contrade; i repertori sono vivi anche grazie all’opera di valorizzazione e consolidamento compiuto nell’ultimo ventennio dall’Associazione Altofino e dalla correlata manifestazione estiva di Valfino al Canto, nella quale hanno spesso preso parte le stesse formazioni questuanti impegnate negli itinerari domestici durante la festa di Sant’Antonio abate.

Le ricerche intensive di Marco Magistrali, compiute in particolare nella seconda metà degli anni Novanta del Novecento ma costantemente aggiornate negli anni seguenti, hanno contribuito alla rivivificazione del fenomeno e hanno inoltre consentito di documentare e salvare dall’oblio repertori poi caduti in disuso e connessi alla devozione per Sant’Antonio abate, come le orazioni da cui derivano molte delle stesse storie cantate nelle questue.

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Laccio d’amore

Nel piccolo paese di Penna Sant’Andrea, adagiato sopra un erto colle della Media Valle del Vomano, a metà strada tra l’Adriatico e la catena del Gran Sasso, sopravvive un antico ballo tra i più arcaici della regione: il ballo del laccio d’amore. Si svolge tutto attorno a un palo, simulacro dell’albero e del rapporto con il mondo vegetale; i nastri colorati, segno tangibile della sovrabbondanza cromatica primaverile, della connessione indissolubile dell’uomo con la natura da cui dipende, si intrecciano e si sciolgono come si intreccia e si scioglie il patto d’amore, celebrato  dalla danza circolare e consacrato dall’incatenamento dei lacci quando una coppia si sposa e promette di rinnovare ogni giorno la propria unione.

“Si faceva a carnevale, io e mio fratello andavamo vestiti da donna, avevamo i cappelli e gli stivali con i fiocchi. Quando poi è stato formato il gruppo i primi anni andavamo nei paesi vicini, poi s’è cominciato ad andare lontano”.
Francesco Serrani, 1987

Come si evince dagli approfonditi studi dell’etnocoreologo Giuseppe M. Gala, la danza dei nastri è un modulo coreutico diffuso in tutto il continente europeo, riscontrato anche in alcune zone dell’Africa settentrionale (Marocco e Algeria), nel Bengala occidentale e in buona parte dell’America Latina (Messico, Guatemala, Venezuela, Perù e Bolivia). In Europa la danza dei nastri è attestata in Provenza con il nome di danse des cordelles, mentre in Borgogna, presso Mâcon, era in uso un ballo analogo chiamato danse de rubans; la stessa danza era diffusa in Belgio, in Svezia, in Inghilterra, in Russia e in Spagna ma le testimonianze più numerose riguardano l’area tedesca, dove è ancora praticata in una vasta zona della Baviera con il nome di Bandltanz.

In Italia la danza dei nastri è presente nell’area campana nel periodo carnevalesco (‘ndrezzata, palintrezzo, laccio d’amore), a Petralia Sottana in provincia di Palermo (ballo della cordella), in Piemonte (bal do sabre); infine, unico caso in Abruzzo oltre a quello di Penna Sant’Andrea, il ballo del palo intrecciato sopravvive a Castiglione Messer Marino come rito carnevalesco itinerante (ballo della sposa).

La straordinaria estensione geografica del ballo rafforza l’ipotesi della sua antichità; alcuni studi collegano l’intreccio coreutico dei nastri alle danze arboree praticate in relazione al culto degli alberi, di derivazione neolitica e basato sull’evocazione della forza vitale e della fecondità. Che il ballo abbia delle funzioni propiziatorie è testimoniato dall’uso che ancora oggi ne viene fatto a Penna Sant’Andrea, dove l’intreccio dei lacci colorati è spesso eseguito in occasione di matrimoni come augurio per la coppia di sposi.

Le ipotesi sulle origini del ballo a Penna Sant’Andrea sono controverse: potrebbe essere stato introdotto da alcuni muratori lombardi che nel periodo rinascimentale lavorarono al restauro della locale chiesa di Santa Maria del Soccorso, o introdotto dagli spagnoli e così diffuso anche in altre zone del Regno di Napoli. È anche possibile che tali influenze si siano innestate sul solco di una tradizione locale, arricchendola di elementi nuovi.

Il ballo è caratterizzato dall’intreccio attorno a un palo di ventiquattro nastri colorati tenuti da dodici coppie di ballerini, e da una serie differenziata di intrecci e di esecuzioni di danza, codificati nel corso del Novecento dal gruppo folkloristico del “Laccio d’amore”: la zenna cupertë, danza processionale di trasferimento, usata in passato per gli spostamenti da una contrada all’altra e divisa in due fasi, la processione e la galleria; la saldarellë, eseguita in coppia e inserita in un contesto formale di simulazione del corteggiamento; lu trallallerë, accentuazione del corteggiamento al ritmo di quadriglia; la polchë, con uomini e donne che girano in direzioni opposte, dandosi in alternanza la mano destra e la mano sinistra a ogni incontro con un differente ballerino; il ballo del laccio vero e proprio, contrassegnato da cinque tipi di intrecci differenti e di diverso grado di complessità, eseguiti a ritmo di saltarella (il palo semplice, il palo a coppie, il palo a quattro, il palo doppio e le treccette), guidati da comandi in dialetto e  accompagnati dall’organetto a due bassi (ddu bottë), dalla fisarmonica, dal tamburello (ciuciombrë), dalla chitarra e dal tamburo a frizione (battafochë).

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La danza dei nastri

Momenti di intreccio dei nastri durante un’esibizione del “Laccio d’amore”.
Roseto degli Abruzzi (TE), 4 agosto 2012.

Riprese di Cesare Baiocco,
Archivio Associazione “Laccio d’amore”.

Trasmissione e salvaguardia

Praticato in passato come rito carnevalesco il ballo del laccio d’amore è divenuto con il tempo patrimonio esclusivo dell’omonimo gruppo folkloristico, costituito a più riprese a partire dai primi anni del Novecento e consolidatosi nei decenni successivi con la partecipazione a importanti eventi, tra i quali il matrimonio del principe Umberto di Savoia a Roma nel 1930.

In seguito, con le numerose esibizioni in contesti nazionali e internazionali, il “Laccio d’amore” si è affermato come uno dei principali gruppi folkloristici italiani; nel 2005, su richiesta di Cesare Baiocco e sulla base della documentazione che attestava la plurisecolare presenza del ballo a Penna Sant’Andrea, l’amministrazione regionale ha riconosciuto il “Laccio d’amore” patrimonio indisponibile della Regione Abruzzo. Nel solco di questo processo di affermazione e valorizzazione è da considerarsi l’impegno che l’Associazione “Laccio d’amore” e la Pro-loco di Penna Sant’Andrea hanno profuso a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento nell’ideazione e nell’organizzazione annuale dell’Incontro di Folklore Internazionale, consolidando nel tempo un’intuizione di Cesare Baiocco e del compianto sindaco Antonio Fabri.

Le ricerche dell’etnocoreologo Giuseppe M. Gala mostrano come il ballo del laccio abbia perduto nel corso del secolo passato alcuni elementi appartenenti alla forma rituale originaria e affievolito via via quelli vincolati all’espressione coreutica tipicamente contadina, innestando la danza in un contesto coreografico prevalentemente rivolto a una dimensione legata al palcoscenico e alla rappresentazione.

Il ballo si è tuttavia arricchito di nuove figurazioni e la sua pratica costante, particolarmente sentita da tutte le generazioni, ha avuto il grande merito di favorire la trasmissione ininterrotta delle principali tradizioni etnocoreutiche ed etnomusicali del paese, divenendo inoltre occasione continua di rafforzamento di una dimensione sociale intergenerazionale, di condivisione e confronto con un panorama nazionale e internazionale di rapporti e scambi culturali. Questo fenomeno di rilevante continuità delle prassi esecutive ha riguardato non soltanto i repertori legati al ballo (saltarella, polca, quadriglia, intrecci) ma anche la pratica strettamente musicale – come evidenziato dalle pubblicazioni dello stesso Gala –, grazie alla presenza di importanti costruttori e suonatori di organetto a due bassi originari di Penna Sant’Andrea o ingaggiati appositamente per accompagnare il gruppo folkloristico, tra i quali si ricordano Loreto Della Noce, fondatore dell’omonima casa costruttrice, suo figlio Giuseppe Della Noce, Fanciullo Rapacchietta e Basilio D’Amico, tra i più importanti suonatori di ddu bottë della provincia teramana e dell’intera regione.

Allo stesso Gala, infine, è da ascrivere l’ideazione della scuola itinerante di ballo “Estadanza”, tenutasi in numerose occasioni estive a Penna Sant’Andrea anche a sostegno di un approfondimento delle danze locali, così come è da segnalare l’instancabile attività didattica che il “Laccio d’amore” rivolge alle giovani generazioni per l’inserimento di nuovi componenti nel gruppo e la garanzia di una sua continuazione futura.

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Aprite è Sand’Andonijë

Di casa in casa, fra contrade rurali e case sparse, le squadre di questuanti portano i loro canti devozionali all’imbrunire. Entrano nelle abitazioni, salutano chi li accoglie, narrano attraverso la musica le storie di Sant’Antonio abate, il potente protettore delle stalle e degli animali domestici, venerato dai contadini. Il fuoco del camino riscalda ogni incontro, vino e biscotti aiutano i girovaghi a proseguire i loro itinerari fino a notte fonda.

“Buonasera a voi signori, qui presente è Sant’Antonio, Sant’Antonio qui presente una visita vi fa / Noi arzilli pellegrini, dalla Penna noi veniamo, il buon Dio ci ha guidati, per le case e le campagne”.
Li Sandandonijrë, 14 gennaio 2018

Luso rituale della questua cantata in onore di Sant’Antonio abate richiama alcuni elementi della sua biografia, trasmessa da Sant’Atanasio. Nato nel 251 a Koma, in Egitto, e morto a Quolzoum nel 356, il 17 gennaio, all’età di centocinque anni, Antonio conduceva una vita eremitica in luoghi isolati, nutrendosi grazie a offerte alimentari; la sua lotta contro i rumorosi demoni avveniva con l’aiuto del canto e della preghiera. Era inoltre considerato un potente taumaturgo, in grado di guarire da gravi malattie e di liberare dalla possessione diabolica.

L’ordine degli Antoniani fu ufficialmente fondato in Occidente nel 1297, ma l’attività di religiosi ispirati al santo egiziano era radicata già da tempo: i suoi seguaci erano specializzati nella cura dell’ergotismo e nel soccorso ai poveri, accolti in fondazioni e ospedali. Vivevano di questua e allevamento di maiali pubblici – nutriti dall’intera comunità –, per il mantenimento delle strutture e delle terapie a base di grasso di suino. Ammalati e maiali erano annunciati da campanelli, al pari dei suonatori che girano per la questua con un campanello, fissato alla sommità di un bastone. La squadra questuante odierna ripropone inoltre l’immagine del gruppo di eremiti al seguito del santo, o quello degli Antoniani in questua per raccogliere i beni da destinare ai poveri e agli ammalati. Il canto e la musica sono gli strumenti che conferiscono potenza al rituale: secondo le credenze locali purificano i luoghi dalle influenze negative, così come per Sant’Antonio abate erano gli strumenti per sconfiggere il Demonio.

A Penna Sant’Andrea, secondo una tradizione ancora vitale in tutta la Media Valle del Vomano, nei giorni che precedono il 17 gennaio squadre di suonatori e cantori entrano nelle case ed eseguono i canti di questua per la festa di Sant’Antonio abate. È una ricorrenza che coinvolge tutto il paese, le vicine contrade e le case sparse per le campagne. Le famiglie aprono le porte e offrono agli ospiti vino e cellittë – i tradizionali dolci di pasta secca ripieni di marmellata d’uva – in cambio della musica e della benedizione della casa e delle persone che la abitano, degli animali domestici e dei prodotti alimentari ricavati dalla macellazione del maiale. Il rituale si celebra in un’atmosfera di allegria condivisa e di solidarietà, ed è un’occasione per rinsaldare le relazioni sociali e ridefinire i legami che formano il tessuto della comunità: non degnare di una visita canora qualcuno con cui si è in buoni rapporti d’amicizia è considerata infatti, ancora oggi, una forma di offesa. Accogliere le squadre in cammino è invece un onore e viene offerto sempre un rinfresco, assieme a beni alimentari da portare via: salsicce, lonze, formaggi, biscotti e, talvolta, galli, conigli e altri animali vivi.

Nelle campagne di Penna Sant’Andrea è molto diffuso un canto raccolto da Ettore Montanaro, chiamato localmente Don Don, utilizzato durante la questua per sancire l’avvicinamento e l’ingresso nelle case e, a conclusione della visita, per ringraziare e salutare gli abitanti e augurare loro prosperità e abbondanza.

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Il canto d’ingresso

La squadra de “Li Sandandonijrë” entra in una casa di campagna ed esegue il canto di ingresso e di saluto.
Penna Sant’Andrea (TE), 14 gennaio 2018.

Riprese di Stefano Saverioni,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.

Trasmissione e salvaguardia

Le squadre di suonatori che hanno operato negli anni nel territorio di Penna Sant’Andrea sono costituite da uomini o da ragazzi, che hanno appreso dai più adulti i repertori utilizzati durante le questue. La squadra de “Li Sandandonijrë”, costituitasi in associazione culturale dalla metà degli anni Novanta del Novecento, si è innestata sulle vicende di un gruppo spontaneo di amici che nel corso dei decenni non ha mai interrotto la tradizione del canto rituale, ereditandola dai più anziani della comunità. 

La familiarità del paese con la pratica del ballo e del canto anche in contesti diversi da quelli legati alle ricorrenze calendariali e alle occasioni cerimoniali proprie della società contadina, come i festival internazionali di folklore affermatisi nell’ultimo cinquantennio, è stata negli anni uno stimolo per la rivitalizzazione dei repertori e la loro circolazione in ambiti temporali e geografici più estesi. Questo fenomeno di riproposta e di approfondimento ha portato alla realizzazione di alcune produzioni discografiche e audiovisive, di mostre e pubblicazioni, alcune dedicate proprio alle tradizioni musicali per la festa di Sant’Antonio abate, come quelle curate dall’etnomusicologo Marco Magistrali, dall’etnocoreologo Giuseppe M. Gala, dall’antropologo Gianfranco Spitilli assieme al documentarista Stefano Saverioni.

La storia dei testi e delle melodie è fatta di continue rielaborazioni: nel corso del Novecento sono stati introdotti o rimodellati diversi canti di questua, come il Don Don o le diverse versioni della cosiddetta Buonasera, o il Tivul’e ’ttavule, a testimonianza della grande duttilità e capacità di adattamento della trasmissione orale, anche attraverso forme di redazione scritta che tornano in seguito a essere veicolate tramite l’oralità.

La pratica del canto itinerante nei giorni che precedono la festa del santo è tuttora molto sentita e viene rinnovata ogni anno, occupando squadre variabili di suonatori, composte anche da una decina di elementi. A questa tradizione ha dedicato molta passione e attenzione il compianto sindaco del paese Antonio Fabri, impegnato in prima persona nei giri di questua come suonatore di tamburo a frizione, il cosiddetto battafochë.

Altri beni nello stesso comune

Il legno che canta

Dalle campane alle ance libere, con la vibrazione del metallo, la famiglia Della Noce crea da secoli suoni che legano assieme le persone. Il suono delle campane si muove nell’aria, quello dell’organetto dall’aria spinta sulle ance nasce e si anima, produce ritmi e fa danzare, scosso dal mantice e dai suoi andamenti. Il legno prende forma seguendo le venature, diventa un contenitore e un propagatore di suoni, fra tasti, tamponi e molle che aprono e chiudono il passaggio dell’aria. Le tecniche di costruzione si affinano, si adattano ai tempi e a nuove esigenze, ma poggiano sempre sugli stessi principi ereditati dai suoi fondatori: la cura e l’ingegno.

“L’organetto nella sua costituzione è semplice, però anche l’operazione che può sembrare più insignificante è importantissima: negli incollaggi, nella precisione dei fori, ha tutta una serie di piccole attenzioni che fanno grande lo strumento. L’organetto richiede molta concentrazione e passione, non si può dare niente per scontato”.
Gianni Falconi, 23 ottobre 2016

L’organetto a due bassi, noto in area abruzzese con il nome di ddu bbottë, è uno strumento meccanico della famiglia organologica degli aerofoni, che produce il suono tramite la compressione dell’aria generata da un mantice, detto anche soffietto. La produzione dell’aria è alimentata dal movimento delle braccia, che la indirizzano verso le ance metalliche poste all’interno delle casse dei bassi e del canto, aperte o chiuse dall’azione delle dita sulla tastiera. L’organetto è uno strumento diatonico, i cui suoni sono ordinati secondo scale formate da cinque intervalli di un tono e due di un semitono, e a doppia intonazione, poiché a ogni tasto corrispondono due note differenti, in relazione all’apertura e alla chiusura del mantice.

Questa eccezionale, semplice ed efficace architettura sonora ha una sua leggenda di origine, come molti altri strumenti musicali che legano in un’unica vicenda mitica la nascita dell’oggetto e del particolare suono ad esso associato. Alla metà del secolo scorso un contadino marchigiano, Paolo Soprani, ospitò un pellegrino austriaco di ritorno dal santuario di Loreto. Il viandante portava con sé un antenato dello strumento, l’accordion; Soprani lo osservò attentamente durante la notte e lo copiò, dando poi vita alla sua rinomata attività di costruzione artigianale di organetti e fisarmoniche. L’elemento devozionale fu anche una delle ragioni di diffusione dello strumento dalle Marche all’Abruzzo, portato dai pellegrini al rientro dal santuario della Madonna di Loreto, assieme al consolidarsi delle rotte commerciali e professionali che portavano merci e mano d’opera specializzata verso la costa e le campagne abruzzesi.

In provincia di Teramo sorsero le prime botteghe artigiane nella seconda metà del XIX secolo: da Tavani a Janni, a Casoli di Atri e Giulianova, fino a Pistelli, a Poggio San Vittorino, a Della Noce e Piercecchi nel corso del Novecento, a Penna Sant’Andrea e a Campli; infine a Ruggieri, a Nepezzano. La fabbrica “Della Noce” fu fondata nel 1925 dal discendente di un’antica famiglia di fonditori di campane, Loreto Della Noce (1896-1988), dopo il ritorno dall’emigrazione negli Stati Uniti. Loreto costruiva i suoi ddu bbottë interamente a mano, sfruttando i mezzi che aveva a disposizione e realizzando di volta in volta gli stessi utensili di cui aveva bisogno per fabbricare le singole componenti: un lungo percorso evolutivo rinnovato dal figlio Giuseppe Della Noce e da suo genero Gianni Falconi, che hanno traghettato l’organetto di famiglia nell’epoca attuale.

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Il fissaggio delle ance

Savino Iachetti fissa le ance alle “suoniere”.
Teramo, 23 ottobre 2016.
Riprese di Stefano Saverioni,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.

Trasmissione e salvaguardia

Negli ultimi decenni sono rimaste attive solo alcune ditte di fabbricazione dello strumento – Janni e Della Noce –, che hanno saputo convertire la loro produzione e adattarla all’evoluzione delle tecniche e degli stili, mantenendo tuttavia una fattura prettamente artigianale di buona parte delle componenti: dalla realizzazione delle casse a quella delle suoniere, dei tasti e delle valvole, dall’accordatura all’incasellamento delle ance con un preparato di cera d’api, olio e pece greca, dal confezionamento dei mantici alla decorazione e all’assemblaggio finale.

La “Fabbrica di Organetti Abruzzesi Cav. Della Noce”, trasferitasi da Penna Sant’Andrea a Teramo, sulle colline a ridosso del capoluogo, serve ormai un mercato nazionale e internazionale, adeguandosi alle richieste di una committenza sempre più esigente e impegnata in circuiti differenziati, dai contesti prettamente rurali a quelli dei festival e delle competizioni, dagli ambiti domestici a quelli delle scuole, delle esibizioni e dei concerti.

Spesso protagonista di mostre e iniziative di promozione dello strumento, l’azienda fondata da Loreto Della Noce, tuttora rigorosamente a conduzione familiare, conserva in una esposizione permanente all’interno della fabbrica anche alcuni preziosi esemplari di organetti prodotti nell’ultimo secolo, assieme alle attrezzature, anch’esse di fattura artigianale, utilizzate in passato per risolvere le varie fasi di costruzione: fra tutte, un antico provino per accordare le ance, realizzato dal capostipite nei primi anni di vita della bottega.

La storia della Fabbrica “Della Noce” e delle tecniche di costruzione dell’organetto, assieme a quella di altre ditte artigianali del teramano, negli ultimi decenni è stata al centro di ricerche etnomusicologiche e antropologiche, tesi di laurea, libri fotografici e documentari, che hanno contribuito a farne conoscere aspetti poco noti e a diffonderli presso un ampio pubblico.

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