Il Venerdì Santo a Villa Petto
Regina delle feste patronali e dei mercati, delle ricorrenze private e delle cerimonie pubbliche, la porchetta di Colledara nasce da una lunga tradizione trasmessa in pochi nuclei familiari, che ne hanno fatto un’arte culinaria e una professione. Un tempo strumento della sopravvivenza delle popolazioni rurali, attraverso una scrupolosa preparazione e un condimento semplice ed essenziale, il maiale diventa così, al calore dei forni, una pietanza prelibata e saporita, rivestita da una croccante crosta dorata che ne esalta il gusto e la tenera consistenza.
“Quasi tutte le famiglie facevano la porchetta, ma ne facevano due, tre all’anno; in occasione della festa di San Gabriele per esempio, l’ultima domenica di agosto qualcuno andava, un paio di donne prendevano la porchetta, la mettevano sulla testa, e andavano a vendere a San Gabriele”.
Oliviero Antenucci, 10 dicembre 2012
Colledara, paese adagiato nella valle del Mavone lungo l’asse viario che conduce al Santuario di San Gabriele dell’Addolorata, è patria della preparazione della porchetta, un’antica pietanza ricavata dalla cottura al forno della carne di maiale dopo un’accurata lavorazione. La tradizione orale, suffragata da testimonianze e dati storici, fa risalire l’inizio di tale pratica alla seconda metà dell’Ottocento, quando la porchetta era realizzata da numerose famiglie con metodi artigianali e poi venduta nelle fiere e nelle occasioni festive del territorio.
I racconti degli anziani collocano la nascita della porchetta di Colledara presso la frazione rurale di Collecastino, a pochi chilometri di distanza dal capoluogo. Fra i suoi fondaci e gli antichi forni, i contadini del luogo sperimentarono la cottura dei maiali allevati in casa, al pascolo assieme alle pecore. C’era Patù, della famiglia degli Sguazzunë, con i figli Giovanni e Alborino Mucciarelli; c’era anche lu Scirë, Enrico Catalogna, con i suoi familiari e discendenti. Erano tutti contadini e abili macellai, esperti della lavorazione delle carni di maiale.
All’epoca i maiali si cuocevano nel forno a legna; una pratica domestica che tuttora, in alcuni casi, è ancora in vigore. I mezzi a disposizione per tutte le fasi di lavorazione erano pochi, e ci si arrangiava con quello che si aveva. Si racconta che lu Scirë, per appurare se il forno fosse arrivato a temperatura, vi infilasse un braccio intero; Oliviero Antenucci ricorda invece l’uso di una cannuccia di legno per “pungere” la carne calda e appurarne il livello di cottura in base al colore e alla consistenza del residuo liquido che si raccoglieva al suo interno. Il maiale disossato si cuciva attorno a pali di legno di acacia, poggiato su griglie affinché il grasso sgocciolasse dentro capienti catini di ceramica provenienti dalla vicina Castelli, rendendo la carne più magra.
I porchettai del passato si recavano alle fiere e alle feste patronali a piedi o con carri, talvolta le donne portavano in testa canestri pieni di porchetta e, se non si vendeva tutta, al ritorno passavano di casa in casa per consegnarla a domicilio e rientrare con meno carne possibile. Uno dei grandi problemi del tempo era, in effetti, quello della conservazione; in assenza di frigoriferi la porchetta veniva lasciata all’aperto, al fresco, in un contenitore coperto di rete e al riparo dagli insetti, potendo in tal modo conservarsi anche per una settimana. Per i mercati del circondario, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, i porchettai elaborarono assieme ai falegnami locali una particolare “teca” con vetrine e cassetti, funzionale a contenere la porchetta e tutti gli accessori necessari per la vendita; secondo i ricordi di Oliviero Antenucci presentava l’unico inconveniente di non lasciare respirare troppo la carne, soprattutto nella stagione calda, tanto da obbligare i porchettai a “girarla” continuamente per evitare che si rovinasse. Era un’epoca di antesignani e di sperimentatori, che hanno contribuito a rendere la pratica un’autentica maestria.
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L’evoluzione dei materiali
Oliviero Antenucci mostra una vecchia foto e racconta l’evoluzione dei materiali di produzione.
Collecastino di Colledara (TE), 29 dicembre 2012.
Riprese di Annunziata Taraschi,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.
Collecastino di Colledara (TE), 29 dicembre 2012.
Riprese di Annunziata Taraschi,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.
Trasmissione e salvaguardia
A partire dalla seconda metà del Novecento la porchetta di Colledara ha conosciuto una progressiva espansione, un successo inarrestabile della produzione, un esponenziale miglioramento delle tecnologie impiegate per la sua realizzazione, mantenendo tuttavia inalterata la ricetta di fondo, basata su quattro fasi essenziali: la disossatura, il condimento e la farcitura, la legatura, la cottura. Alla sapienza nello svolgimento delle procedure che contrassegnano ogni fase della preparazione, si accompagna la trasmissione delle pratiche di allevamento e di macellazione, a partire dalla salatura delle carni, fino alla delicata arte del taglio della porchetta, determinante per presentare alla clientela un prodotto di alta qualità.
A Colledara sono oggi attivi nove artigiani, ciascuno con il proprio laboratorio e il proprio furgone:
Giampaolo Mercuri, Peppino D’Alberto, Fratelli Pallotta, Adriano Antenucci, Fratelli Mercuri, Gianni De Sanctis, Fratelli Di Gennaro, Lucio Di Stefano, Nicolino Mercuri. Si è pertanto trasmessa, aggiornandola con le moderne tecnologie, la pratica della vendita ambulante della porchetta in contesti festivi, sia pubblici che privati, come i mercati e le fiere, le feste dei santi patroni o i compleanni, i matrimoni, le comunioni e altre occasioni celebrative.
I maiali sono allevati all’aria aperta da aziende certificate del territorio, mentre un’apprezzata sagra promuove e salvaguarda la produzione della porchetta di Colledara da quasi un ventennio, anche grazie a iniziative collaterali di valorizzazione promosse dall’associazione “I maestri della porchetta di Colledara”; fra tutte si segnala una significativa mostra fotografica, coordinata da Mariateresa Di Odoardo, e la ricerca ad essa correlata sulle immagini fotografiche della storia della porchetta locale dalla prima metà del XX secolo.
Tramite il progetto europeo Réseau Tramontana, alla fine del 2012, l’antropologa Annunziata Taraschi ha realizzato alcune interviste sul territorio all’anziano produttore Oliviero Antenucci, contribuendo a incrementare le documentazioni esistenti.
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