I canti di lavoro agricolo ad Arsita
- La fronda che restaLa raccolta delle olive ad Arsita
“Cogli l’oliva e cogli l’olivastro, cogli l’oliva e la fronda ci resta”. È l’inizio di un canto per la raccolta delle olive, chiamato ad Arsita e in tutto il mondo contadino dell’entroterra abruzzese “a cojë la livë”, “a cogliere l’oliva”. Le voci delle donne intonavano a turno, una dopo l’altra, la melodia che accompagnava il lavoro manuale, con scale e piccoli rastrelli, nel silenzio della campagna autunnale. Gli abbacchiatori ad aria compressa dominano il paesaggio sonoro contemporaneo, relegando il canto a una dimensione domestica e privata del ricordo e della rievocazione.
“Si cantava quando si lavorava…le olive, le piante dell’olivo, le piante grosse, hanno tanti rami per poter salire sopra, ci possono stare anche tre, quattro donne; si prendevano a mano, si tirava e andavano dentro una piccola cesta che avevi sopra la pancia, le olive scendevano lì dentro ma molte volte se ne andavano per terra, e allora tu le dovevi raccogliere”.
Adele Di Marcoberardino, 19 ottobre 2017
La raccolta delle olive è il momento conclusivo dell’anno agricolo, tradizionalmente accompagnata da canti lunghissimi e nostalgici, nello scenario dell’autunno che avanza verso l’inverno: è intrisa della solennità e della drammaticità dell’ultimo raccolto, della fine di un ciclo intrecciata al mese dedicato ai defunti.
Olio e foglie d’ulivo sono anche parte essenziale della liturgia cristiano-cattolica, soprattutto legata al periodo pasquale, e di molte pratiche magico-religiose e terapeutiche della medicina popolare locale. Con l’olio, per secoli, si è letta e sventata l’invidia, o si operavano strofinazioni rituali per salvare le parti malate; le foglie di ulivo benedette, se bruciate, si usavano per tenere lontano il malocchio e per proteggere i bambini.
Presenza costante nell’economia agricola delle valli orientali del Gran Sasso, l’olivicoltura è radicata dalle zone costiere alle quote pedemontane, dove si arrampica fino a 600 metri sul livello del mare, altitudine limite in termini di capacità di resistenza al freddo della pianta. Ad Arsita, paese dell’Alta Valle del Fino adagiato in una conca collinare non lontana dal Monte Camicia, gli uliveti che punteggiano le colline costituiscono coltivazioni destinate in prevalenza all’autoconsumo domestico.
Secondo la testimonianza di Enzo Fioravante, un giovane perito agrario di Arsita che gestisce con passione l’azienda agricola di famiglia, “non esistono grandi piantagioni di ulivo” e la coltura “è praticata da secoli per il consumo familiare”. Nella sua azienda e nel circondario, maggiormente diffuse sono le varietà del Leccino e di altre razze semi-selvatiche, come l’autoctona Olivastra, necessarie per l’impollinazione (anemofila ad opera del vento essendo l’ulivo pianta a fiore non autofertile). Il Leccino, o Leccio, di origine toscana, si è diffuso in quest’area dell’Abruzzo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, parallelamente all’avvio dei processi di meccanizzazione della raccolta; è una varietà resistente, che offre un buon rapporto qualità/resa, ed è diventata da allora tra le più rappresentative sul territorio, andando a rimpiazzare le più antiche razze della Dritta, della Moraiola, della Frantoio e della Carboncina.
La potatura, eseguita tutti gli anni o ad anni alterni, è un’operazione particolarmente delicata, che può condizionare pesantemente la resa della pianta. Il terreno non viene in genere zappato, ma è lasciato a prato per facilitare il lavoro di raccolta in condizioni piovose e consentire una facile disposizione delle reti. Da tempo ormai la raccolta non è più effettuata manualmente con i rastrelli o con le mani, e con l’ausilio di un cestino di vimini attaccato in vita, quando squadre di raccoglitori e di raccoglitrici procedevano lentamente tra le fronde delle piante, cantando e dialogando, secondo logiche di cooperazione familiare e amicale contrassegnate dallo spostamento di uliveto in uliveto e dallo scambio della forza lavoro. La rarefazione della manodopera e la mancanza di tempo hanno reso necessario l’utilizzo degli abbacchiatori pneumatici, diffusi nel territorio di Arsita a partire dagli anni Novanta; strumenti che facilitano il lavoro ma ridimensionano l’elemento relazionale della raccolta, inquinano il paesaggio acustico e impediscono la secolare pratica del canto. Cadute nelle reti le olive vengono riversate nelle cassette e sottoposte a una prima defogliatura, un procedimento importante, da svolgersi con cura, poiché un eccesso di foglie conferirebbe un carattere troppo piccante all’olio.
Se la raccolta è un momento di aggregazione del nucleo familiare allargato, dove le generazioni coesistono e cugini e nipoti si radunano nel fine settimana per poi dividersi l’olio, il passaggio al frantoio resta un appuntamento annuale che anima e ritesse ciclicamente le più estese relazioni sociali della zona. Si arriva per lasciare le olive alla molitura e intanto si discute dell’annata, della resa, dei prezzi, della pioggia e del freddo, della temuta mosca olearia; e se anche i suoni del frantoio sono cambiati, identico è l’odore che assale all’entrata, marchio nella memoria sensoriale di chiunque sia stato almeno una volta in un trappitë all’opera.
Le olive sono pesate e defogliate meccanicamente, quindi tritate e ridotte in pasta sotto pesanti macine di granito; il composto, amalgamato e pressato con l’ausilio dei friscoli – dischi di tessuto sintetico un tempo realizzati con le fibre vegetali – viene in seguito nuovamente strizzato per favorire la fuoriuscita del mosto d’olio, raccolto in una vasca in cui il movimento centrifugo consente la separazione definitiva dell’acqua dall’olio. Nonostante la meccanizzazione del processo, intercorsa negli ultimi decenni, resta intatta la logica di fondo della molitura a freddo, al di sotto dei ventisette gradi, che permette di ottenere un prodotto finale sopraffino: il puro olio extra-vergine di oliva.
- Un primo piano di Adele Di Marcoberardino mentre intona un’aria “a cojë la livë”.
Foto di Marta Iannetti,
Arsita (TE), 19 ottobre 2017,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.Adele Di Marcoberardino cantaLa fronda che resta - Famiglia Fioravante: un momento della raccolta delle olive con le reti.
Foto di Marta Iannetti,
Arsita (TE), 19 ottobre 2017,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.Reti e raccoltaLa fronda che resta - Un panorama del profilo montuoso visibile dai colli di Arsita: il monte Coppe, il monte Camicia e il monte Prena; in primo piano gli ulivi della famiglia Fioravante in fase di raccolta.
Foto di Marta Iannetti,
Arsita (TE), 19 ottobre 2017,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.Ulivi e montagneLa fronda che resta - Primo piano sulle olive, con foglie e rami.
Foto di Stefano Saverioni,
Arsita (TE), 19 ottobre 2017,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.Olive, foglie e ramiLa fronda che resta - Olive in primo piano.
Foto di Stefano Saverioni,
Arsita (TE), 19 ottobre 2017,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.OliveLa fronda che resta
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La raccolta delle olive
Una fase della raccolta delle olive nella piantagione della famiglia Fioravante.
Arsita (TE), 19 ottobre 2017.
Riprese di Marta Iannetti,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.
Arsita (TE), 19 ottobre 2017.
Riprese di Marta Iannetti,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.
Trasmissione e salvaguardia
Nel contesto mezzadrile che caratterizzava il territorio arsitano del passato, l’olivicoltura rappresentava un complemento alle attività principali di allevamento del bestiame e di cerealicoltura, assumendo una funzione secondaria che favoriva la diffusione di impianti ampi e spesso senza schemi precisi, consociati a colture in pieno campo, come il fieno, i cereali o, a volte, anche i vigneti. Attualmente si tende a preferire l’impianto specializzato, poiché favorisce e rende più agevole la raccolta e la lavorazione del terreno, mentre nei campi seminati non si mettono altre piante per consentire il passaggio delle macchine agricole.
Oggi si intravedono molti uliveti incolti nelle campagne della zona. Tuttavia quella dell’ulivo continua a essere una coltivazione ancora fortemente presente e praticata, perché non eccessivamente impegnativa e in grado di fornire un prodotto prezioso come l’olio, indispensabile per la cucina e per la conservazione degli alimenti durante la stagione invernale.
Risulta parzialmente decaduta la filiera che contrassegnava la raccolta dell’oliva e la successiva spremitura, con la scomparsa dei numerosi frantoi a trazione animale, a cavallo o ad asino, esistenti ad Arsita fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, mentre ne permangono di riconvertiti a motore elettrico nel limitrofo territorio di Bisenti.
Sebbene non si canti più sopra gli ulivi, e il rumore degli abbacchiatori abbia soppiantato il canto e condizionato il paesaggio sonoro della raccolta, la persistenza della coltivazione dell’ulivo per autoconsumo familiare rappresenta comunque una forma di resistenza fondata sulla logica dell’autoproduzione, e l’olio extra-vergine di oliva, l’unico olio vegetale ottenuto da frutta e non da semi, continua a rivestire un’importante centralità nella vita delle famiglie arsitane.
L’“oro verde” che scaturisce dalla raccolta, come lo chiama Enzo Fioravante, è anche il segno tangibile di un rinnovato legame familiare, tramandato attraverso le generazioni: gli ulivi furono piantati dal nonno e si trasmettono ai figli e ai nipoti, assieme al loro frutto.
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