Il gergo dei cardatori di Cerqueto
- Il regno delle pecoreLa pastorizia a Fano Adriano
AFano Adriano, sotto il Gran Sasso d’Italia, la montagna era “carica” di pecore da giugno a settembre, quando le greggi riprendevano la via della campagna romana, guidate dai “pecorai” e dai cani. Si passava l’estate sui pascoli, in ripari di fortuna, fatti di frasche o di pietre a secco, o sotto il cielo stellato e la pioggia; l’inverno si viveva nelle capanne di canne e di paglia, o nei casali delle tenute nobiliari prese in affitto per le pecore. In lontananza, verso la città, si sentiva il cannone del Gianicolo risuonare a mezzogiorno.
“Nella campagna romana la pastorizia ovina non si svolge tutto l’anno, ma solo in quel periodo di tempo che più per essa si presta il clima e la produzione dell’erba netta, cioè dei pascoli naturali ed artificiali nel periodo che va dall’ottobre al maggio mentre nell’altro periodo le pecore transumano in montagna. Da ciò si spiega come sia i padroni di pecore (armentari) che i loro dipendenti spesso non sono nati nella campagna romana ma provenienti da tutto l’Appennino Centrale, e i più dall’Abruzzo”.
Romolo Trinchieri, 1953
“Villaggio in Abruzzo ulteriore in diocesi di Penne, e propriamente nel ripartimento di Teramo, dalla quale città ne dista miglia 12. È nel circondario del Gran Sasso d’Italia, detto Monte Corno, e trovasi abitato da 750 individui, addetti quasi tutti alla pastorizia”. Con queste parole Lorenzo Giustiniani descrive Fano Adriano nel Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli del 1802. Ancora nel corso del Novecento pecore, capre, bovini, cavalli, somari, popolavano la montagna di Fano, soprattutto nei mesi estivi, quando il bestiame transumante risaliva in montagna compiendo la cosiddetta “monticazione”, di provenienza dall’Agro Romano o, in misura minore, dall’Agro Pugliese, come ricorda anche il regolamento per l’esercizio degli usi civici dell’epoca (1962). Il pascolo era diviso in due zone, la superiore, destinata al bestiame transumante, chiamata delle “erbe estive”, la seconda, più in basso, delle “erbe invernali”, per il bestiame che svernava nel territorio comunale. Gli stessi usi civici regolamentavano i tempi dell’accesso, e dunque anche i ciclici ritorni dei pastori e degli animali: la durata del pascolo era limitata a un periodo compreso tra il 21 giugno e il 29 settembre, e si svolgeva nelle località in alta quota, come Monte, Incodaro, Venacquaro, casetta Leone, Vicenna, Fonte Calzoni e molte altre, fino a occupare anche le montagne vicine, secondo gli usi civici dei comuni che governavano gli accessi ai territori contigui o, in taluni casi, anche distanti.
Le aziende fanesi possedevano in effetti, complessivamente, decine di migliaia di capi di bestiame, in prevalenza ovino, e portavano le pecore al pascolo anche ai Prati di Tivo, sul monte Corvo, a Pizzo Intermesoli, a Campo Imperatore. Al contrario, il sistema di migrazione che coinvolgeva lo Stato Pontificio e il Patrimonio di San Pietro forniva stagionalmente alle greggi abruzzesi i pascoli invernali attorno a Roma, fino alla Toscana e all’Umbria; la sua fondazione moderna viene fatta risalire a un’epoca non di molto precedente al 1289, ed era pertanto una pratica di lungo periodo.
“Le montagne sono sempre state cariche di bestiame, era l’unica risorsa; da qui a Leonessa erano tutte pecore”, ricorda Adamo Cortellini, originario della vicina Senarica. Era l’unica risorsa per la popolazione ma anche per i datori di lavoro, e dai paesi dell’Alto Vomano erano in tanti a trovare occupazione con i fanesi, con le famiglie di proprietari di greggi come i Nisii, i Riccioni, i Risoluti, i Lancianese. Anche dalla frazione di Cerqueto si andava a fare i garzoni con i fanesi; era un commercio fiorente e c’era bisogno di manodopera, c’erano i grandi proprietari e i muscetti, che avevano poche decine di capi: migliaia e migliaia di pecore da governare con l’organizzazione gerarchica delle aziende e la divisione di responsabilità e mansioni. Allevamento ovino, produzione dei formaggi di latte di pecora, vendita degli abbacchi, dalla tosatura alla mungitura, dalla marchiatura ai periodici controlli sullo stato di salute del bestiame, tutto doveva essere regolato dal capo dell’azienda, il vergaro, con il suo articolato personale: i pecorari, dislocati sul pascolo e incaricati di custodire gli armenti, il caciere o caciaro, specializzato nella produzione del formaggio, il buttero, incaricato di portare a Roma gli abbacchi, la ricotta, il formaggio e gli altri prodotti da smerciare, i bagaglioni, addetti al trasporto della legna con le bestie da soma e a procurare tutto ciò che potesse essere utile al funzionamento dell’azienda, infine i biscini, ragazzi apprendisti pecorai impegnati in mansioni minori, come portare l’acqua e spostare le reti delle pecore.
Il 29 giugno era la festa dei SS. Pietro e Paolo, a cui è dedicata la chiesa madre del paese. A Fano Adriano era anche il giorno della fiera del bestiame, e iniziava l’estate in montagna. Alla metà di settembre si cominciava a pensare alla nuova partenza, al lungo percorso assieme agli animali e alle varie tappe per le soste quotidiane. Dopo circa otto giorni di cammino la “demonticazione” era compiuta, con il ritorno nella campagna romana o, con un tragitto transumante ancora più impegnativo, nelle terre pugliesi. Nell’Agro Romano i pastori, quando non disponevano di casali dove ricoverarsi, costruivano capanne di paglia, canne e pali di legno, in cui trascorrevano tutto il periodo di permanenza fuori dal paese di origine. Bruno Riccioni ricorda la grande capanna armentaria, dove dormivano i pecorai senza famiglia e si facevano il formaggio e la ricotta o si cucinava sul focolare, posto al centro della struttura, fra pochi mattoni di tufo. Poca pasta, poco pane e poco condimento dovevano bastare.
- Bruno Riccioni mostra una campana per il castrato (manzirë) e un corno intagliato di vacca maremmana usato dai pastori come contenitore per l’olio.
Foto di Gianluca Pisciaroli,
Fano Adriano (TE), 13 luglio 2011,
Archivio Centro Studi Don Nicola Jobbi/Bambun.Corno e campanaIl regno delle pecore - Bruno Riccioni con le pecore nei pressi del “Rifugio del Monte”, sulla montagna di Fano.
Archivio Riccioni,
Fano Adriano (TE), anni Cinquanta del XX secolo,
per gentile concessione di Bruno Riccioni.Al “Rifugio del Monte”Il regno delle pecore - Silvino Nisii, capo azienda alla tenuta di Luigi Riccioni, nei pressi della cosiddetta “Capanna delle Fontri”.
Archivio Nisii,
Campo Imperatore (AQ), settembre 1942,
per gentile concessione di Berardino Nisii.Alla “Capanna delle Fontri”Il regno delle pecore - In primo piano Valentino Nisii con le pecore al casale di Pallavicina, nella campagna romana, all’epoca nel comune di Zagarolo.
Archivio Nisii,
San Cesareo (RM), 29 giugno 1936,
per gentile concessione di Berardino Nisii.Al casaleIl regno delle pecore - Valentino Nisii con le pecore ai Prati di Tivo.
Archivio Nisii,
Pietracamela (TE), 23 luglio 1984,
per gentile concessione di Berardino Nisii.Ai Prati di TivoIl regno delle pecore
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La tosatura
La tosatura delle pecore nella tenuta di Luigi Riccioni a Pallavicina.
San Cesareo (RM), anni Cinquanta del XX secolo.
Riprese di Leonardo Riccioni, Fondo Riccioni, Biblioteca “Melchiorre Dèlfico”/Centro Studi Don Nicola Jobbi.
San Cesareo (RM), anni Cinquanta del XX secolo.
Riprese di Leonardo Riccioni, Fondo Riccioni, Biblioteca “Melchiorre Dèlfico”/Centro Studi Don Nicola Jobbi.
Trasmissione e salvaguardia
Dopo varie crisi attraversate nel corso del Novecento, coincidenti con periodi di forte emigrazione dalle zone montane verso il Canada, gli Stati Uniti, il Venezuela o le aree più sviluppate d’Europa, in particolare nel secondo dopoguerra, la pratica della pastorizia transumante, nelle modalità trasmesse per secoli fra l’Abruzzo e le pianure romane e pugliesi, è stata in buona parte abbandonata. Permangono oggi poche aziende, che hanno perlopiù reso stanziale la loro attività, collocandola in montagna lungo tutto l’arco dell’anno o, più frequentemente, stabilizzandosi a Roma e riportando sui pascoli estivi solo una parte esigua del loro patrimonio zootecnico.
Con la progressiva affermazione delle produzioni industriali anche alcune lavorazioni particolarmente significative, come quella della lana, sono cadute in disuso, e solo di recente hanno ricevuto una rinnovata attenzione da parte di progetti di recupero sostenuti dal Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga. I problemi insorti in seguito alla nuova presenza di predatori come i lupi, reintrodotti negli ultimi anni, hanno ulteriormente scoraggiato le pratiche di allevamento in loco consolidando una sostanziale dismissione della pastorizia tradizionalmente intesa.
Particolare rilievo assumono, in tale quadro di complessivo impoverimento della cultura pastorale, le documentazioni effettuate in pellicola video 8 mm. da Leonardo Riccioni nei primissimi anni Cinquanta del Novecento, quando la transumanza a piedi era ancora una pratica vitale, assieme alle attività che contrassegnavano la vita dei pastori, dall’abbacchiatura alla tosatura, compiuta presso la tenuta Pallavicina dai carosini delle Puglie, oggi rimpiazzati da quelli neozelandesi. Così come appaiono importanti i significativi archivi fotografici familiari, custoditi presso le case dei fanesi, che ritraggono un’epoca solo marginalmente affrontata dalle poche ricerche condotte sul territorio, fra tutte quella magistralmente condotta dall’antropologo sociale giapponese Yutaka Tani della fine degli anni Sessanta, centrata sulla pastorizia della frazione di Cerqueto.
Oggi esistono alcune fiere che cercano di mantenere vivo il settore, come quella di Fonte Vetica a Campo Imperatore, e quella di Piano Roseto; o iniziative museali, come quella del Museo Etnografico di Cerqueto, che raccoglie e custodisce numerosi oggetti della cultura pastorale locale e organizza eventi legati alla valorizzazione delle attività produttive e del patrimonio culturale della pastorizia, come avviene nel capoluogo per volontà delle associazioni “Pro-loco”, “I Grignetti”, “Associazione Fanese Amici del Presepio”. È così che appare sufficientemente trasmessa la lavorazione del formaggio e della ricotta, o la preparazione di alcune pietanze di origine pastorale, come la cosiddetta pecora “alla callara”, o la pecora e l’agnello alla brace, provenienti dalle stesse aziende del territorio e consumati in ambito domestico o presso alcune attività di ristorazione. Delle produzioni immateriali, al contrario, restano poche vive tracce, soprattutto nella memoria dei più anziani.
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